“Il rischio”: una pedagogia come stile di vita
“È avvenuto però che l’uomo (specialmente il bambino) fu costretto a una vita inattiva, a un lavoro psichico artificialmente isolato dagli organi a cui esso deve rimaner collegato e che non sono soltanto il cervello, ma anche gli organi dei sensi e il sistema muscolare. E un decadimento fisico ne è stato la conseguenza.”
(M. Montessori)
Partendo dalle parole di Maria Montessori, oggi vi vorrei parlare di Pedagogia del rischio. Secondo la dott.ssa Montessori, mente e corpo lavorano insieme ed il movimento è essenziale nell’uomo, soprattutto nell’infanzia. Purtroppo, oggi il bambino viene continuamente immobilizzato o gli viene chiesto di stare fermo.
- Cos’é la pedagogia del rischio?
La pedagogia del rischio vede il “rischio” non come un limite, bensì come un elemento di crescita per il bambino. Con questo tipo di approccio viene data fiducia al bambino, sia nelle scelte, che nelle azioni, accettandone le conseguenze (ad esempio cadere e farsi male).
Bisogna partire dal presupposto che il bambino, già da piccolo, comprende il rischio e le conseguenze che ne derivano. È naturale che crescendo, e facendo diverse esperienze, acquisirà maggiore consapevolezza del “rischio”.
Bisogna però far ATTENZIONE a non fraintendere il termine “rischio” con quello di pericolo. Non hanno lo stesso significato!
Con il termine “rischio” ci si riferisce ad una possibile eventualità di subire un danno.
Con il termine “pericolo” invece, si fa riferimento ad una “situazione o motivo cui sono associati uno o più elementi capaci di compromettere più o meno gravemente la stabilità o la sicurezza di un individio” (dizionario).
L’adulto deve quindi tutelare il bambino, valutando i rischi e ponendo gli strumenti utili ad affrontarli.
- La pedagogia del rischio si applica solo in natura?
Erroneamente si pensa alla pedagogia del rischio come applicabile solo in natura. Ma non è affatto così!
La pedagogia del rischio è applicabile nella vita di tutti i giorni:
- In natura (permettendo al bambino di arrampicarsi, scivolare, arrotolarsi, strisciare…);
- In giardino (andando in bicicletta, saltando, andando sul monopattino…);
- A casa: utilizzando strumenti pericolosi (coltelli, martello, forbici…).
L’adulto quindi si trasforma, cambia modo di vedere e concepisce l’educazione non come uno stare “zitti e fermi”, ma un’educazione “attiva”, in cui il bambino si muove ed “impara facendo”.
L’educazione, rispetto al passato, è cambiata notevolmente. Nel passato i bambini vivevano “la strada”, i boschi, la natura, la casa… oggi non è così!
I bambini passano molto tempo, o la maggior parte, a scuola. Viene chiesto loro di fare sempre qualcosa, senza seguire i loro interessi e i loro bisogni, ma quelli dell’adulto/maestra.
- In che modo Maria Montessori andò a soddisfare questo desiderio di “movimento” nel bambino?
Maria Montessori, pensò di soddisfare questo desiderio di movimento nei bambini, introducendo nelle Case dei Bambini gli “esercizi di vita pratica”, considerati una vera e propria ginnastica “la cui palestra raffinante tutti i movimenti è l’ambiente stesso in cui si vive.” Gli esercizi di vita pratica, per essere eseguiti presuppongono il movimento di tutto il corpo. Grazie alla ripetizione, i movimenti si perfezionano sempre più e i muscoli si fortificano.
Infatti, nel Metodo Montessori, molti esempi sopra citati, vengono utilizzati anche al nido, come ad esempio: forbici, coltello, martello, cacciavite….
- Come si deve comportare il genitore/educatore?
L’adulto, come nel Metodo Montessori, dovrà:
- Osservare (come si approccia il bambin* al rischio? Come lo affronta? Quali sono le soluzioni che cerca?);
- Evitare aiuti ed interventi non necessari, quindi inutili (se il bambino si sente tranquillo a saltare da un ceppo di albero, proporre qualsiasi aiuto, anche la semplice “manina” sarebbe inutile. Anzi, rischieremmo di innervosire il bambino e distrarlo);
- Gestire le conseguenze derivanti dal “rischio”. Può accadere che il bambino si sbucci un ginocchio, si faccia male cadendo, si tagli utilizzando la forbice, si ammacchi un dito con il martello… Le conseguenze ci sono e dipende da come l’adulto le gestisce.
- Avere fiducia nel bambino, calcolando il rischio ed evitando situazioni oggettivamente pericolose.
Il bambino è consapevole che il rischio comporti delle conseguenze ed il suo intento non è farsi male! Egli prova paura, timore, insicurezza, ma sentendosi supportato dall’adulto che lo osserva riesce, indirettamente, a trasformare la paura in coraggio e ad affrontare qualsiasi situazione che gli si propone dinanzi.
Spesso, l’errore che si compie è quello di generalizzare ogni cosa: tutti i bambini amano sporcarsi, correre, arrampicarsi, rotolare… ma NON è affatto così. È il bambino che decide per sé ed anche dove “rischiare” se a casa, a scuola, in giardino, nel bosco… sicuramente “rischierà” dove si sentirà più sicuro!
L’adulto, quindi, dovrà lasciare sì libertà di scelta e di azione, solo dopo aver valutato la situazione che si presenta al bambino e le sue capacità fisiche e mentali.
- Perché parlare di pedagogia del rischio agli insegnanti e ai genitori?
Applicare questa pedagogia non è sicuramente facile: l’adulto deve trasformarsi, gestire le proprie emozioni, valutare i rischi ed i pericoli, nonché le conseguenze e le capacità del bambino nell’affrontarle, fungere da supporto (fisico e mentale) nel momento dello sconforto. L’attuazione di questa pedagogia è importante per il bambino che sarà soddisfatto e felice di aver avuto tante esperienze di crescita.
Perché è importante?
- Il bambino sviluppa fiducia in sé;
- Ha la possibilità di trovare soluzioni a problemi reali;
- È autonomo e indipendente;
- Riesce a gestire le emozioni e ad affrontarle in maniera sana;
- L’errore non viene considerato un nemico, bensì un amico. Dall’errore si imparano tante cose!
N.B. Ogni bambino è diverso ed ha modi diversi di gestire le proprie emozioni. Non diamo per scontato quindi, che tutti i bambini desiderino un abbraccio, una carezza o, ancora, desiderino essere presi in braccio. Alcuni bambini preferiscono affrontare da soli il momento di sconforto, dolore e tristezza, per poi parlarne in un secondo momento.
Quindi, RISPETTIAMOLI!
Consiglio la lettura/ricerca di Ellen Sandseter, professoressa del QMUC, Norvegia.
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